Una domanda/riflessione del filosofo Salvatore Bravo : gli italiani oggi, che popolo sono ? Non più una Comunità di ipotetici santi, eroi e navigatori, di particolarità regionali, di grandi ricchezze artistiche e storiche, di un grande patrimonio di fantasia creativa, ma per lo più un popolo di “ansiosi alienati”, “imitatori del nulla”. Avendo assunto un modello di vita collettivo emulato da un format commerciale di cieco consumismo di stampo anglo-americano. Avendo destrutturato l’iter formativo di scuola ed università. È scomparso ogni aureo esempio di “ragion critica” ,in un trionfo diffuso di “empirismo d’accatto” spacciato per innovazione o modernità. Così, persi i tratti distintivi virtuosi, abbiamo trasformato le nostre popolazioni in un pastrocchio di plebe. Senza più Stato né Patria, ci ritroviamo dentro un “film-horror”: che ha snaturato la lingua, i ritmi di vita, i diritti ed i sentimenti, e la stessa anima comune, del nostro Belpaese. C’è, persino, da meravigliarsi come possiamo sopravvivere ogni giorno come collettività.

Italiani un popolo di imitatori !? Per trasformare un popolo in un guscio vuoto incapace di trasmettere saperi e tradizioni, e specialmente infecondo a livello politico, si può agire secondo una varietà di modalità.

Il caso italiano, da inserire nel contesto europeo, rivela due modalità in particolare con cui si sta procedendo alla disintegrazione dello Stato e della nazione: si annichiliscono la lingua e le istituzioni scolastiche, trasformandole, immettendo sul corpo vivo una serie di corpi estranei che ne mutano l’essenza. La lingua madre e le istituzioni scolastiche sono il patrimonio in cui è conservata la patria.

La Patria per riconoscersi deve relazionarsi con l’alterità per definire l’identità. Se si sottrae ad un popolo l’identità, non resta che imitare i vincitori per darsi una identità secondaria, vero succedaneo dell’identità autentica. Siamo lontano dal pensiero polare dei Greci, dai fondamenti culturali , politici ed etici del continente europeo. Per i Greci l’armonia politica è pluralità in tensione tra opposti1:  ”A dire il vero, qualcuno si è chiesto con meraviglia come mai il cosmo, essendo costituito di principî contrari, ossia di secco e umido, di freddo e caldo, non sia andato distrutto e in rovina già da molto tempo.”

È come se ci si meravigliasse come mai una città continui ad esistere, essendo costituita da classi completamente opposte fra loro, ossia da poveri e da ricchi, da giovani e da vecchi da deboli e da forti, da cattivi e da buoni. Chi si meraviglia di ciò, ignora che questa appunto è la caratteristica più stupefacente della concordia politica: intendo dire il fatto che essa realizza un ordinamento unico, pur partendo da una molteplicità di elementi, e che pur partendo da elementi eterogenei essa realizza un ordinamento omogeneo e resistente all’assalto di qualsiasi avvenimento, naturale o fortuito che sia.

 Stato e nazione

La condizione attuale si concretizza nel dualismo apparente tra Stato e patria: lo Stato permane nelle sue istituzioni, ma la patria, il popolo non vi aderisce, non vi partecipa, si produce uno scollamento tra lo Stato e la nazione, in tal modo le istituzioni non sono che organi esecutivi e burocratici di un organismo più ampio: il mercato.

I Popoli senza Stato sostanziale, non sono che plebi, perché incapaci di riconoscersi secondo la verticalità delle istituzioni e secondo l’orizzontalità della lingua.

La verticalità delle istituzioni non è solo altezza metaforica, simbolo della spiritualità storica dei popoli, ma è specialmente l’universale, pratica dell’umanesimo; le istituzioni sono il luogo, dove la sostanza comune di un popolo vive per gemmare in nuove forme mai scisse dalla storia, anzi la memoria è la vitalità che innova. L’asse orizzontale è il tocco diretto, l’empatia concreta e duale della lingua vivente che si apre alla pluralità delle nazioni e dei popoli e che si interseca nella verticalità dell’universale.

Simon Weil affermava che l’essere umano ha bisogno di più radici, la prima radice è il radicamento nella lingua, nei monumenti, nelle tradizioni che sedimentano la vita e la trasmettono. Un individuo senza radice è astratto, avulso da ogni contesto e disperso negli stimoli sensoriali, nelle parole che prescrivono di diventare un nomade dell’economia, un’appendice dei grandi apparati a cui non può e non sa resistere, in quanto non ha identità, non ha progetto. E’ solo una maschera che il sistema mette in scena e consuma velocemente per essere sostituito da altri più giovani, più efficienti, più disponibili a lasciarsi saccheggiare.

La resistenza, nella storia, si è concretizzata nella forma dell’internazionalismo, ovvero i popoli lottavano da contesti storici ed identitari diversi per porre un limite a ciò che li minacciava e li voleva ridurre ad oggetti, a strumenti. A semplici enti da entificare secondo procedure sempre più veloci ed infiltranti. Popoli senza identità non sono che greggi che migrano di macello in macello.

Il disprezzo per la lingua madre

Privare un popolo della propria lingua, sostituirla con una non lingua, significa ridurre al silenzio un popolo intero. Le parole non sono flatus vocis, ma in esse si conserva in forma dinamica la storia di un popolo con le sue contraddizioni ed il suo meticciato costituito da incontri e scontri.

La parola è parte della dialettica viva di un’identità. La graduale sostituzione delle parole, frasi e modi dire della lingua madre con la lingua inglese, come nel caso italiano, non è solo un semplice furto dell’identità nazionale, ma instilla il disprezzo, il fastidio per la propria lingua madre vissuta come un limite alle opportunità della glebalizzazione-globalizzazione.

I popoli muoiono tra le maceria della propria lingua. La lingua non è solo lessico è un modo di pensare, gli anglofoni usano metafore verticali e di proporzione, pertanto il loro modo di pensare coglie ed astrae aspetti che in altre lingue sono meno presenti o diversamente presenti. Le pluralità linguistiche costituiscono una pluralità di modelli di pensiero che sono il vero patrimonio dell’umanità.

Ai modelli plurali di pensiero si sta sostituendo il linguaggio commerciale ed empirico della lingua inglese, decurtata del suo valore letterario e filosofico. I popoli scompaiono, ma restano in vita, è una nuova forma di olocausto, si lascia in vita ciò che è culturalmente morto, il risultato è un’unica plebe, un’unica lingua del calcolo.

Proliferano certificazioni ed iniziative in nome della lingua inglese, mentre l’italiano muta in angloitaliano. Le nuove generazioni non hanno solidità linguistica e valoriale, pertanto si liberano della lingua madre in nome del modernismo non mediato dalla ragione collettiva. Un popolo che introietta il disprezzo per la lingua madre non ha difese, è un organismo senza anticorpi, si lascia invadere e comprare con la ”complicità veicolata” delle vittime.

Didatticismo e contenuti

La didattica ed il tecnicismo stanno sostituendo i contenuti, l’azione metodologica guarda ed imita ora il mondo anglosassone, ora l’Europa del nord. Negli ultimi decenni si osanna il metodo finlandese, anzi si propone di introdurlo in modo da svecchiare ciò che resta del metodo classico e della densità dei suoi contenuti. La cultura classica ed annessa metodologia sono ancora una volta un limite pericoloso alla formazione: contenuti, impegno, dedizione, profondità sono parte del passato, vanno eliminati in nome del progresso. Il metodo finlandese propone tecnologia, abbattimento della separazione disciplinare, nodi tematici che devono aggregare le materie.

Gli ultimi studi sul metodo finlandese dimostrano che la scomparsa delle materie favorisce apprendimenti superficiali e capacità linguistiche conseguenti. Il problem solving ha fatto scivolare i finlandesi nelle classifiche per la conoscenza della matematica (classifica PISA), a dimostrazione degli effetti del taumaturgico metodo. La riforma più radicale la Everyday mathematics ha eliminato l’astratto per il solo concreto con effetti negativi. Gli alunni hanno perso la capacità di svolgere calcoli mentali, in quanto utilizzano i computer, per cui l’autonomia è stata limitata, mentre la dipendenza dai dispositivi è aumentata.

Il decano dei pedagogisti italiani Benedetto Vertecchi argomenta la sua contrarietà al metodo finlandese, ne rivela i limiti, ma nessuno pare ascoltarlo, anzi evidenzia quanto l’intrusione massiccia di tecnologie tolga all’alunno possibilità formative. Naturalmente si dà voce solo agli oratores della nuova pedagogia, le voci dissenzienti restano sullo sfondo, non si discute le loro ragioni.

Inoltre ci si dovrebbe porre il problema delle strutture scolastiche non adeguate a tanta innovazioni. Il fine dell’istituzione scolastica è rispondere ai bisogni della persona, i nostri alunni ed alunne necessitano di essere educati a dare un senso alle tecnologia, ad utilizzarle in tempi determinati. Necessitano di imparare a discutere con la lingua, ad affinare il senso critico attraverso i contenuti ed il confronto. Il dialogo e la formazione all’impegno sociale sono le vere urgenze della formazione.

Si profila un futuro prossimo senza presente, senza passato e senza un suo  futuro. Una linea del tempo contratta in un punto senza estensione e profondità. La prima forma di resistenza è condividere dubbi e certezze e non lasciarsi travolgere dal modernismo incolto e superstizioso dei nostri giorni.

Vorrei concludere con i versi di Margherita Guidacci su cui dovremmo riflettere:  “La sapienza è un pianta che rinasce, solo dalla radice, una e molteplice.  Chi vuol vederla frondeggiare alla luce, discenda nel profondo … “

Consegnare alla monocultura dell’empirico intere generazioni, non può che generare mostri e violenza. Che in modo capillare si diffonde in modalità espressive sempre più aggressive. Tra le cause più importanti di questo processo di degrado collettivo c’è il declino della nostra lingua, nonché della capacità di comunicazione e di condivisione dialettica senza le quali non vi sono forme di relazioni effettive all’interno di una comunità. Un processo collettivo che genera solo conflitti fine a se stessi, che si autoriproducono all’infinito, sino all’ipostatizzazione  (ndr : conferimento di un significato concreto e autonomo a nozioni estratte da una realtà fenomenica indistinta e rappresentate con formule linguistiche non omogenee) dell’alienazione, come stato d’animo vissuto permanentemente.

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