Pensare e spiegare l’Italia, intervista a Lucio Caracciolo Direttore di “LIMES” Rivista di geopolitica in occasione dei suoi primi 25 anni di vita. Un anniversario che trova un Paese indebolito economicamente, privo di un disegno strategico sul suo futuro, con un grave deficit di classe dirigente, sia politica che statale, ma anche dell’impresa privata. Sempre più popolata di “prenditori” che di imprenditori. Purtroppo, sempre più marginale sullo scacchiere geopolitico internazionale. Che fare per uscirne ?

Limes, nei suoi venticinque anni di vita, si è ciclicamente occupata dell’Italia in molteplici numeri della rivista. Si può dire che la sua stessa nascita nel 1993, in un periodo di forti cambiamenti sul piano internazionale e nazionale, sia legata anche all’idea della necessità per l’Italia di assumere maggior consapevolezza strategica e capacità di definire le proprie priorità in un quadro in cui venivano meno molti dei punti fermi che avevano caratterizzato il contesto precedente?

Questa è stata una delle idee che sicuramente ci ha portato a fondare Limes, che ha un’origine abbastanza peculiare. L’idea della rivista, infatti, non è mia ma di un mio collega francese, Michel Korinman, che ha diretto insieme a me la rivista fino al 2000. Korinman è un germanista e uno storico che proveniva dall’esperienza di Hérodote, una famosa rivista di geografia e geopolitica francese. Da questa radice e anche per via del comune approccio geopolitico, siamo passati al tentativo di costruire una rivista italiana. Evidentemente nessuna rivista di geopolitica può essere neutrale, non può situarsi in una posizione esterna al suo luogo o Paese di origine.

È chiaro che una rivista italiana, con sede a Roma, con la maggior parte dei collaboratori di nazionalità italiana, riflette inevitabilmente quello che è l’ambiente in cui nasce e, per fortuna, prospera. Come abbiamo scritto nell’editoriale del primo numero, l’interesse nazionale era al centro della nostra ricerca e tuttora lo rimane, in un contesto che in questi venticinque anni è molto cambiato: innanzitutto ricordo che quando siamo nati, nel 1993, con il primo numero, fummo accolti molto favorevolmente dal pubblico e anche da alcuni critici, ma con riserve anche piuttosto pesanti di una parte del mondo politico-culturale italiano, in particolare in ambito cattolico, ambienti che non amavano troppo alcuni caratteri, il primo dei quali era l’impiego stesso del termine ‘geopolitica’, di cui davano un’interpretazione, a mio avviso del tutto arbitraria e che non trova affatto riscontro nella nostra rivista, come di una scienza fascista o nazista, riferendosi anche alla rivista omonima Geopolitica che dal 1939 al 1942, sotto gli auspici di Giuseppe Bottai, Ministro della Cultura, fu diretta da Giorgio Roletto ed Ernesto Massi ed era consona al clima politico-culturale dell’epoca. Ovviamente il nostro è un approccio totalmente diverso, non scientifico e del tutto privo di intenzioni politiche. La nostra intenzione originaria che permane è di aprire un po’ di finestre sul mondo in Italia e di cercare di portare l’analisi della realtà dei conflitti territoriali nella loro componente spaziale e di stimolare una discussione pubblica, cosa che credo siamo riusciti a realizzare.

Allora come oggi sembra tuttora estremamente complesso per il nostro Paese definire una propria agenda fondamentale, sostanzialmente condivisa dalle classi dirigenti, sulla base della quale impostare linee di condotta di lungo periodo e sulla quale basare le azioni verso l’esterno, in primis in sede europea. C’è uno squilibrio fra un’importanza oggettiva dell’Italia fra punti di forza potenziali, di carattere geografico, economico e culturale da un lato, e la capacità di valorizzarli e sfruttarli effettivamente dall’altro tramite l’elaborazione di una soggettività in grado di giocare un ruolo nello scenario internazionale?

Certo che c’è e deriva dalla storia italiana. La storia dello Stato italiano, dalla vicenda risorgimentale in avanti, è segnata dall’incapacità di costruire uno Stato sufficientemente legittimato e sufficientemente efficiente per poter concepire una strategia di questo o di qualsiasi tipo. L’Italia dopo essersi ‘gonfiata il petto’ negli anni Trenta facendosi Impero, ha subito la catastrofe della Seconda guerra mondiale con le conseguenze, anche morali, che ne sono derivate e con il declassamento da ultima delle grandi potenze ad una categoria francamente indefinita e indefinibile, comunque certamente inferiore sulla scena mondiale. E questo non solo per ragioni oggettive – la sconfitta militare – ma anche soggettive, come l’incapacità nostra di costruire un soggetto unitario capace di porsi con un proprio angolo visuale, con una propria prospettiva nel mondo.

Queste riflessioni chiamano in causa direttamente il tema della classe dirigente, della sua composizione e dei canali della sua formazione e cultura. Scriveva Raffaele Mattioli che tutta la vicenda unitaria poteva essere vista come una serie di occasioni e di tentativi per dare vita finalmente ad una classe dirigente adeguata. Ebbene sembra che l’Italia non abbia risolto completamente questo problema o sicuramente meno di altri paesi. Sembra anche che alcuni canali di formazione operanti un tempo come i partiti e l’impresa pubblica siano oggi molto meno efficaci. Che cos’è dunque oggi la classe dirigente italiana? Come è composta e quali sono le principali criticità ad esse relative? C’è una frammentazione di segmenti diversi che faticano a trovare camere di compensazione e una lingua comune?

Non c’è una classe dirigente italiana, vi sono dirigenti importanti in varie strutture, corporazioni – strutture istituzionali, aziendali – ma non direi che ci sia una classe dirigente dotata di una visione comune. Se per classe dirigente intendiamo quella che Gaetano Mosca chiamava ‘classe politica’, indicando con questo termine in realtà una classe dirigente intesa in senso più ampio, l’Italia forse ne ha avuta una nel periodo risorgimentale e post-risorgimentale. Un’altra classe dirigente si è poi costruita certamente nel periodo più fortunato per il nostro Paese, negli anni della ricostruzione e della Prima Repubblica. Dai primi anni Novanta in poi viviamo, invece, in una situazione di incertezza sotto ogni profilo e quindi di incapacità di trovare un centro interno del potere, con la costante tentazione – tipicamente italiana – di cercare qualcuno fuori dall’Italia che ci indichi cosa fare.

Sempre parlando di classi dirigenti uno dei temi di lungo periodo è legato alla difficoltà di articolare il rapporto nazionale-internazionale, dovuto sia alla forza dei condizionamenti in fasi importanti della nostra storia sia anche ad atteggiamenti culturali molto radicati. Nella fase più recente è stata molto influente la teoria e la pratica del ‘vincolo esterno’. Può tratteggiarne brevemente la genesi, nonché il motivo del suo influsso e gli effetti?

 Il vincolo esterno inteso nel senso più ampio è nato, se vogliamo, con l’Italia. In questo caso abbiamo un’accezione positiva di vincolo esterno: Cavour seppe agire in maniera magistrale sul tavolo delle grandi potenze europee, in particolare giocò con la Francia, la Germania (Prussia) e l’Austria una partita a scacchi a più dimensioni, in cui riuscì in un’impresa che lui stesso forse non aveva immaginato e forse nemmeno voleva, ossia quella di costruire un’Italia unita dalle Alpi al Lilibeo. L’idea originaria di Cavour era quella di costruire un’Italia settentrionale che sarebbe arrivata più o meno alla Pianura Padana; invece siamo andati ben oltre. Il vincolo esterno in senso moderno è, invece, una limitazione della sovranità che è intrinseca all’Italia a partire dalla Seconda guerra mondiale ed è inscritta in termini negativi nel Trattato di pace del 1947, che è la vera costituzione geopolitica del Paese, che ne determina tuttora il rango. Il vincolo esterno diventa infine una vera e propria ideologia alla fine della Prima Repubblica, in particolare attraverso il pensiero e l’azione di alcune personalità, la più eminente delle quali era forse Guido Carli. Questi sosteneva apertamente che non essendo gli italiani capaci di governarsi, era necessario che qualcuno spiegasse loro come agire. E Carli, come alla fine buona parte della classe dirigente della Prima Repubblica – mi riferisco ad Andreotti, De Michelis, tutto l’asse democristiano e socialista – pensava che questo ‘maestro esterno’, questo riferimento, almeno per gli aspetti di politica economica potesse essere l’Unione Europea che si costituirà a Maastricht e quindi poi l’euro. Sul piano geopolitico-militare, invece, restava e resta ovviamente il vincolo americano, inevitabile dopo la sconfitta nel conflitto mondiale, sia nella forma istituzionalizzata della NATO, sia attraverso il rapporto diretto con gli Stati Uniti. L’idea di fondo è, appunto, che gli italiani siano un popolo incapace di reggersi da solo, che ha bisogno di essere, in qualche modo, guidato, orientato e non abbandonato ai propri spiriti animali, venendo indirizzato verse le mete corrette da spinte, pulsioni e intenzioni esterne.

Paesi come Germania e Francia hanno partecipato al processo di costruzione europea avendo chiara un’interpretazione delle priorità dei propri sistemi nazionali, e cercando di farla valere in sede di trattativa. Ritiene che nel caso dell’Italia ci sia stata invece una leggerezza in questo tipo di valutazioni, ad esempio in ambiti come la regolamentazione bancaria? Vi è stata anche una sottovalutazione dell’importanza della scelta delle persone chiamate a rappresentare l’interesse italiano nelle sedi europee e nel loro coordinamento strategico? Anche qui l’Italia patisce una mancanza di capacità di fare sistema?

 Distinguerei una prima fase ‘alta’, quella costitutiva dell’integrazione europea, che coincide temporalmente – guarda caso – con la Prima Repubblica e con la Guerra fredda, quindi dagli anni Cinquanta sino a sfiorare gli anni Ottanta: in questa fase l’Italia aveva un’idea abbastanza precisa di quale fosse il suo ruolo in Europa, che declinava spesso anche avanzando proposte proprie. In questa fase l’azione italiana si sviluppava spesso in parallelo a quella della Repubblica Federale Tedesca, molto meno in genere con quella della Francia. Questo perché, ad esempio, l’Italia condivideva con la Germania Federale lo statuto di nazione sconfitta, e quindi traeva dall’Europa anche quelle risorse di legittimazione internazionale che aveva in gran parte disperso con il conflitto mondiale. Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, invece, credo che si sia perso un po’ l’orientamento. Questo avviene in primo luogo perché è entrato in crisi il sistema politico italiano – o meglio, il sistema partitico – a differenza di quanto è avvenuto nella maggior parte dei paesi europei, che avevano e in buona misura hanno tuttora una struttura partitica abbastanza consolidata – anche se ormai in Germania si incomincia ad intravedere più di uno scricchiolio. L’Italia, dopo il 1990, non ha più avuto una struttura e delle culture politiche stabilite, e questo ci rende meno capaci, per usare un eufemismo, di stabilire efficacemente rapporti con il resto del mondo. La Democrazia Cristiana di Andreotti faceva parte di un mondo, quello internazionale democristiano, che metteva di norma il Cancelliere tedesco e il Primo Ministro italiano in condizione di essere continuamente in un rapporto diretto, e lo stesso avveniva per comunisti e socialisti. Adesso, francamente, la situazione mi sembra molto caotica. In questo contesto abbiamo giocato la partita dell’euro in una condizione di notevole inferiorità e questo è stato uno dei motivi che ha portato poi, nel tempo, in particolare negli ultimi anni, una buona parte degli italiani ad avere un’opinione negativa dell’Unione Europea.

Un altro tema a cui in parte abbiamo già accennato e che attraversa la vicenda dell’unificazione italiana è quello relativo alla debolezza della statualità, questione che presenta una molteplicità di aspetti. In primo luogo, vi è il grande tema dell’amministrazione, della sua adeguatezza, competenze e del rapporto con il potere politico. Concentrandoci sui periodi più recenti, quali sono a suo avviso i problemi centrali?

Esiste una continuità delle amministrazioni che tende a prescindere dai regimi. È chiaro che, per esempio, il passaggio dal fascismo e dalla monarchia alla democrazia e alla repubblica non ha significato uno spoil system della pubblica amministrazione. Più o meno quelli che hanno servito Mussolini hanno poi servito De Gasperi. Questo è, del resto, perfettamente normale, è legato al compito stesso dell’amministrazione, che è quello di dare continuità alle politiche, aldilà delle scelte dei leader, che restano spesso sulla carta, e al di là delle inclinazioni politiche momentanee del Paese. A differenza di altri paesi la tecnocrazia italiana è però, rispetto a qualche anno fa, credo molto indebolita e invecchiata. Soprattutto, non essendoci più un centro del potere la funzione amministrativa ha assunto molto spesso un carattere di contropotere, una funzione negativa. Pensiamo per esempio alla magistratura, o almeno settori della magistratura, che tentarono, con ‘Mani Pulite’, di assumere un ruolo politico e già questo rappresenta evidentemente un elemento di caos in un sistema pubblico e in particolare in un sistema democratico. Più in generale vi sono oggi molte più possibilità che in passato che le amministrazioni non facciano nulla o si pongano in posizione negativa rispetto a determinati progetti. Questo avviene per la presenza di una pluralità di soggetti che devono decidere intorno alle varie questioni. Per esempio, con la regionalizzazione si è aggiunto un centro decisionale in più, che doveva essere un elemento di snellimento e, invece, molto spesso ha avuto un ruolo opposto. Credo che l’Italia abbia bisogno, semmai, di tagliare alcuni di questi poteri di veto e di individuare meglio chi è responsabile di cosa e chi può e non può fare cosa; ciò che oggi mi pare, stando alla cronaca, molto difficile.

L’economia italiana per quanto indebolita da una lunga e perdurante crisi conserva dimensioni e potenzialità importanti, rimanendo la terza dell’Eurozona. Al tempo stesso presenta però gravi problematiche, come la scarsità di grandi imprese, il ridotto trasferimento tecnologico e il perimetro ristretto del gruppo delle aziende innovative, la difficoltà poi nel costruire nuovi poli con capacità acquisitive anche nei confronti dell’estero a fronte dell’ampia cessione di pezzi pregiati della nostra industria a gruppi stranieri e ancora la cronica scarsità d’investimenti. In questo contesto è pensabile e consigliabile un’azione strategica dello Stato? Che forme può assumere oggi la politica industriale? Quali ne sono, anche gettando uno sguardo al contesto internazionale, gli strumenti a disposizione?

Lucio Caracciolo: L’Italia ha di fatto abdicato a una politica orientata in un certo grado, maggiore o minore, dallo Stato già da molto tempo, con la liquidazione delle grandi imprese pubbliche e con alcuni provvedimenti che di fatto hanno limitato la capacità progettuale nel medio periodo, che è essenziale in termini di sistema. Inoltre, dubiterei assai che si possa parlare di un’economia nazionale per via del famoso dualismo che il Paese si porta appresso dal Risorgimento o anche da prima. Le differenze macroscopiche tra l’economia settentrionale e quella meridionale – e naturalmente all’interno di queste due aree – con le grandi differenze che presentano, rendono difficile trovare strategie che funzionino in tutto il Paese, cioè che non vadano a scapito del Nord o del Sud. Credo che evidentemente sarebbe più che auspicabile trovare una capacità progettuale, ma per questo occorre che si ricostituisca – e non vedo dove perché mancano proprio i luoghi – una classe dirigente come quella che si era formata negli anni Cinquanta e Sessanta, con le figure che tutti conosciamo, e che derivavano in parte anche dall’esperienza del fascismo – penso all’IRI di Alberto Beneduce e così via. Negli ultimi decenni questa vera e propria classe dirigente si è dispersa, è invecchiata e, salvo alcune luminose eccezioni, credo sia rimasto veramente poco. Inoltre, i nostri governi sono fin ad ora strutturalmente deboli. Vi sono infine fattori oggettivi: siamo un Paese che è in calo demografico, in cui cresce la quota di popolazione anziana, quindi fuori dall’età lavorativa, in cui si allarga la forbice e il divario tra i territori, in cui la produttività è praticamente stagnante – e con essa i salari –, in cui gli investimenti diretti esteri sono una risorsa sempre più rara. È un miracolo se siamo rimasti ancora, malgrado tutto, come lei dice, la terza economia europea e la seconda per produzione manifatturiera. Ed evidentemente il dato strutturale, storico che ci portiamo dietro – almeno da quando abbiamo liquidato la grande impresa pubblica – è la mancanza di grandi imprese. Quella che chiamiamo ‘grandi imprese’ in Italia (ENI, Leonardo e non molto altro) a livello mondiale si colloca nella media, quella che riteniamo ‘media’ è piccola e quella che chiamiamo ‘piccola’ è micro-impresa.

Per la sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo, l’Italia si pone teoricamente come un’ideale piattaforma logistica lungo le rotte commerciali in corrispondenza dei due maggiori mercati del pianeta, quello europeo e quello asiatico. Quali sono le ragioni di fondo per le quali queste potenzialità sono state così scarsamente sfruttate? Da questo punto di vista la nuova ‘Via della Seta’ rappresenta un’opportunità o un rischio?

Lucio Caracciolo: Ha detto bene, una posizione ideale, anche nel senso che poi deve tradursi in realtà. Noi abbiamo un vantaggio geofisico, e quindi logistico, potenzialmente enorme per la nostra collocazione, quasi di molo d’attracco per le merci in entrata e in uscita dall’Europa verso l’Asia e viceversa. Al tempo stesso, però, non disponiamo di strutture portuali, o meglio: abbiamo numerosi porti di medie dimensioni ma nessun porto che abbia dimensioni – e soprattutto attrezzature – tali da renderlo concorrenziale con i principali porti del Nord Europa. I cinesi hanno provato ripetutamente a trovare un hub italiano: prima Taranto, poi Gioia Tauro, Napoli. Adesso credo che la discussione sia sostanzialmente concentrata su Trieste, meno su Genova (specialmente dopo gli ultimi avvenimenti), e credo che questa possa essere una partita importante per noi. Certamente, a proposito di quanto detto prima, dal punto di vista del sistema-Italia sarebbe stato molto meglio che fosse un porto meridionale, come auspicato dai cinesi all’inizio, ad accogliere e a sfruttare le correnti di traffico commerciale. Questo avrebbe rappresentato anche un fattore di riequilibrio economico e sociale interno. Invece andremo ancora una volta verso Nord. C’è poi da considerare un ulteriore fattore, ovvero che Trieste è storicamente molto più collegata all’Europa centrale, e rimane sostanzialmente il porto di Vienna e della Baviera, e molto meno all’Italia. Inoltre, Trieste ha un porto franco molto sviluppato, che è una conseguenza dei trattati internazionali successivi alla Seconda guerra mondiale e quindi è un porto ‘italiano’ fino ad un certo punto. In generale abbiamo avuto in questi anni una guerra fra autorità portuali italiane che ha sostanzialmente impedito di giungere ad una decisione e nessuno è stato capace di imporsi. In definitiva, quindi, le Vie della Seta sono un’occasione da non perdere, ma temo che almeno nella sua sostanza l’abbiamo già persa.

Oltre a quelle finora affrontate quali altre questioni aperte sottolineerebbe per quanto riguarda le prospettive del nostro Paese? Demografia, immigrazione, fratture territoriali? Quali nodi occorre mettere in primo piano?

Lucio Caracciolo: Tutti quelli che lei ha citato, con uno che forse è prioritario: il recupero di territori, ormai non solamente concentrati a Sud, di fatto dominati da organizzazioni criminali. Non è possibile immaginare uno sviluppo dell’Italia lasciando alla camorra, alla mafia, alla ‘ndrangheta e quant’altro, la possibilità di governare e di reggere di fatto una buona parte del Paese. Noi in Italia abbiamo questo paradosso: avere nella regione più povera, la Calabria, una grande potenza globale che si chiama ‘ndrangheta che muove cifre straordinarie a livello finanziario – con i traffici di droga e non solo (ad esempio sfruttando il fenomeno migratorio) – ed è diramata in tutti i continenti. Da Reggio Calabria – tuttora la centrale di questa grande organizzazione – basata in Calabria e fondata su rapporti di sangue, parte un’influenza che si dirama dall’Australia, al Canada, al Sud America fino agli Stati Uniti e alla Germania. Ora, tutto questo è evidentemente intollerabile, perché si accompagna ad un controllo del territorio, ad un’oppressione delle popolazioni e purtroppo poggia anche su un certo consenso. Si tratta infatti di organizzazioni che raramente devono ricorrere all’uso della forza o alla violenza aperta, dato che la mancanza di contrasto da parte dello Stato o il contrasto limitato all’azione di pochi volenterosi, favorisce il loro insediamento. Poi sicuramente vengono tutti gli altri fenomeni che lei ha citato, su cui c’è una vastissima letteratura. Ma la liberazione dell’Italia dalla criminalità organizzata mi pare una priorità fondamentale del nostro Paese.

Guardando al quadro internazionale odierno, quali sono i principali condizionamenti con i quali l’Italia deve confrontarsi? In sintesi, con riferimenti ai principali attori – Stati Uniti, Cina, Russia, Germania, Francia – qual è il punto di vista dal quale osservano l’Italia? Quali le preoccupazioni, interessi ed aspettative nei confronti del nostro Paese? Quanto vale, insomma, l’Italia come recitava il titolo di un recente numero di Limes?

Lucio Caracciolo: Potenzialmente vale molto di più di quello che vale oggi, per le ragioni di cui abbiamo parlato. Il che significa che tutti i paesi che lei ha citato guardano all’Italia quasi come una terra di nessuno, una terra verso la quale possono esercitare delle influenze, delle scorrerie, delle imposizioni che non potrebbero esercitare in altri paesi che dimensionalmente, dal punto di vista economico, non sono molto più grandi dell’Italia ma che sono più organizzati. Noi restiamo per molti aspetti sotto la tutela dell’influenza americana sotto il profilo strategico, geopolitico. Basti vedere il numero di militari americani che non è mai diminuito nemmeno dopo la fine della Guerra fredda, le bombe atomiche americane che il nostro Paese ospita, il fatto che l’Italia abbia rappresentato una base logistica per la conduzione dei conflitti dell’area mediterranea. Per la Germania abbiamo rappresentato in questi anni una grande scommessa e una grande delusione: la scommessa di convertirci alle virtù tedesche e la delusione di non esserci riusciti e, allo stesso tempo, di non potersi – almeno per ora – svincolare dal legame con l’Italia. Si tratta di uno scenario che molti in Germania potrebbero ritenere utile nell’interesse del proprio Paese, ma che risulta complicato per via dei vincoli imposti dall’euro. La Cina, come dicevo, ha guardato inizialmente – anche negli anni Novanta – con grande apertura e simpatia al nostro Paese, ma si è dovuta confrontare con l’inefficienza politico-amministrativa dell’Italia. Credo che ora cercherà di costruire qualcosa di rilevante a Trieste, effettuerà alcuni investimenti nelle risorse che, in campo tecnologico, costituiscono ancora delle punte d’eccellenza in Italia. Si tratta però più di atti di cordiale rapporto bilaterale – cosa che vale anche per altri paesi, come per esempio la Francia – che non dell’intenzione di costruire effettivi rapporti con un soggetto con il quale valga la pena di discutere e approfondire ad un tavolo negoziale. Non c’è, insomma, un’idea dell’Italia come di un Paese con cui stabilire rapporti paritari.

 Volendole esercitare, quindi sempre con le cautele citate, quali sarebbero in questo momento le priorità strategiche fondamentali dell’Italia?

Lucio Caracciolo: Decidere innanzitutto quello che vogliamo diventare. In campo economico è chiaro che la priorità che accomuna molti settori è quella dell’istruzione e della formazione. L’Italia aveva una scuola più che decente fino almeno ad un decennio fa. Ormai il livello scolastico-universitario nel nostro Paese è in grave declino e questo declino è accompagnato e moltiplicato dalla diminuzione delle nuove nascite e dall’assottigliarsi delle nuove generazioni. Se manca la formazione di base, poi, è difficile sperare in qualche ‘punta di lancia’, che magari potrà esserci, ma che non farà sistema. Credo che il primo investimento da fare sia in quella direzione. Un altro investimento prioritario, come dicevo, è quello del recupero, graduale, difficile, ma da tentare, dei territori ceduti alle organizzazioni criminali. Credo anche che occorra costruire delle strutture di alta formazione della classe dirigente, sull’esempio francese, chiaramente adattato alla realtà italiana, perché non vedo luoghi, come una volta erano i partiti politici, che possano creare spontaneamente nella società civile questa classe dirigente. Da un punto di vista geopolitico è chiaro che i nostri interessi sono sostanzialmente radicati nell’area mediterranea e quindi dobbiamo, in qualche modo, bilanciare la volontà americana di impedire un’eccessiva penetrazione cinese con le nostre necessità di attrarre investimenti, cinesi ma non solo, a sostegno del Paese. Più in generale credo che dobbiamo immaginare nuovamente il nostro ruolo in Europa, in cui si stanno disintegrando le istituzioni, le grandi progettualità comuni e si stanno riaggregando delle mini-Europe. Questa appaiono in alcuni casi vincolate a interessi specifici di dossier, in altri, come per quanto riguarda il gruppo di Visegrad, unite da una visione neonazionalista, che è quasi una contraddizione in termini: essere gruppo ed essere nazionalisti sembra non compatibile, ma così avviene, poiché vi sono delle ideologie che oramai prescindono dall’idea di collaborare se non sulla base di un do ut des. Questa idea di un’Europa che è diventata un ring in cui si tolgono e si aggiungono risorse è una realtà di fatto con la quale dobbiamo misurarci e attrezzarci, individuando un Paese cui fare immediato riferimento, cosa non semplice nell’attuale caos europeo, mantenendo inevitabilmente – piaccia o non piaccia – la presenza e anche i vincoli americani, sviluppando il rapporto con la Russia e quindi cercando di avere un ruolo differente da quello dei paesi dell’Est europeo, che cercano di costruire una barriera impermeabile che per noi sarebbe fatale, rappresenterebbe una nuova spartizione dell’Europa. Resta un grande punto interrogativo sulla Francia, un Paese che non ci ha mai molto preso sul serio e che noi non abbiamo molto amato.

Per concludere, oltre al problema delle classi dirigenti di cui abbiamo parlato, ritiene vi sia anche un problema di consapevolezza dei temi di cui abbiamo trattato relativamente all’opinione pubblica? La scarsa presenza di alcuni temi fondamentali dal dibattito pubblico è essa stessa un punto di debolezza dell’Italia? Più in generale, quali ritiene siano le condizioni a cui possano formarsi una più chiara visione e volontà in merito a tali questioni?

Una Buona domanda! Certamente sarebbe utile che questi temi fossero posti in maniera più profonda sul tavolo, ma mi domando come, visto che ormai il dibattito pubblico mediatico è semplicemente legato a tweet e contro tweet. Credo che dal mondo politico non possiamo aspettarci molto, e deve essere in qualche modo la cosiddetta ‘società civile’ nelle sue varie componenti a riprendere in mano e a ricostruire una prospettiva politica che oggi manca. Dall’alto secondo me non avremo molto, se non nulla: è dal basso che bisogna ripartire, dai territori, da ciascun cittadino attraverso nuove aggregazioni magari non necessariamente politiche che si prendano cura della gestione dei territori anche metropolitani ormai abbandonati a sé stessi.

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