Il giornalismo in Italia si sta suicidando? Produce troppe opinioni ed omissioni, si applica a troppi ed inutili tweet e post, con poco rispetto dei fatti e con ancora meno inchieste. Mentre, hanno sempre più via libera le querele ed i ricorsi civili “temerari” per “intimorire” e “bloccare” i giornalisti “con la schiena dritta”. Nel frattempo, non funziona più il “modello editoriale” basato sulla preminenza economica della pubblicità. Intanto, scompaiono gli editori veri. Così, la “stampa libera” si estingue.

È interessante il numero di “FQMillennium” del mese di Maggio, dedicato al tema “Perché la gente non crede più a stampa e tv”. Racconta di editori/imprenditori poco limpidi, di omologazione delle informazioni e di carenza di notizie degne di questo nome, di “gara” tra media e social network sul fronte di chi la spara più grossa (e più falsa), di (rari) giornalisti strapagati ma con la coscienza sporca. Tutto vero. Dopo più di 37 anni trascorsi come giornalista (senza mai fare il baciamano ai potenti, né di prima né di oggi, né “amici” né “avversari”), vorrei aggiungere dieci riflessioni  in modo estremamente sintetico :

  1. In Italia il giornalismo d’inchiesta (che non dovrebbe essere un’eccezione, ma la regola) esiste ancora, ma è sempre più raro trovare giornalisti che sappiano farlo. Per lo più si tratta, oltretutto, di cronisti freelance, che lavorano per passione civile in realtà difficili.
  2. Di fatto, oggi il giornalismo d’inchiesta viene scoraggiato da molti editori e, quindi, dai loro direttori: anche a causa dei costi (si deve investire su un’inchiesta), ma pure per una più o meno contagiosa predilezione per la superficialità, spesso studiata dolosamente a tavolino (è più vantaggioso “vendere notizie” basate su pregiudizi).
  3. Oggi la carenza di redattori maturi ( ndr.esodati” a migliaia negli ultimi dieci anni) determina la fine di una “scuola di giornalismo” sul campo e segnala la progressiva estinzione di professionisti capaci di insegnare (e dimostrare dando l’esempio) ai più giovani come si consumano le suole delle scarpe e (l’uso) i neuroni. Cosicché spesso, nella migliore delle ipotesi, la velina passata sottobanco (da qualcuno che ha interesse a farla uscire) è confusa con uno scoop o un’inchiesta.
  4. Troppi direttori ed editori da alcuni anni preferiscono incoraggiare chi “scova” e “rilancia” tweet e post stando seduto davanti alla sua scrivania. Oppure vanno per la maggiore i cronisti cui il politico, l’avvocato, il magistrato, il poliziotto o l’uomo dei servizi segreti (eccetera) sanno di poter rifilare qualsiasi cosa senza sentirsi fare soverchie domande.
  5. I social network sono ormai gli spara-slogan più cari ai politici: comodi e a prova di contraddittorio (tanto che persino Facebook ha dovuto chiuderne un tot usati come ventilatore spargi-letame dai fan di alcune aree politiche). Peccato che siano spesso l’unica fonte anche per i media. Invece i giornalisti, preparati sul tema affrontato, dovrebbero sempre verificare e, poi, notare errori, omissioni, contraddizioni, possibilmente in modo documentato.
  6. Nei Paesi anglosassoni già da anni si parla di “churnalism“. Il neologismo è stato creato nel 2008 dal giornalista della BBC Waseem Zakir unendo “churn out” e “journalism”. “Churn” significa zangola, la vecchia macchina usata per produrre il burro. “Churnalism” vuol dire, dunque, produzione di notizie senza preoccuparsi della qualità : una grande fabbrica di copia-e-incolla. Così il giornalismo degenera in una “produzione di massa di ignoranza” (espressione già usata, una decina di anni fa, da Nick Davies, esperto di media).       
  1. Su quest’ultimo fronte, non trascurerei il ruolo svolto da periodici in apparenza “innocenti” – come alcuni (non tutti) di quelli popolari dedicati a gossip e cronaca rosa: più o meno tra le righe, spesso propinano – “innocentemente” – il peggio dei pregiudizi in voga. Guarda caso, l’editoria popolare è uno dei settori meno colpiti dalla crisi e con più lettori.
  2. In questo contesto, il giornalismo vero è in via di estinzione. Un’estinzione accelerata, in Italia e non solo, dall’atteggiamento  della politica, che anche oggicome e forse più che ai vecchi tempisi distingue per la lottizzazione dell’informazione pubblica. Si aggiunge un attacco nei confronti dei giornalisti e dei media non omologati (non a caso l’Italia è citata negativamente nelle indagini sulla libertà di stampa).
  3. Durante quasi 40 anni di lavoro, ho imparato (e alcuni vecchi amici e colleghi mi hanno insegnato) che le principali doti del giornalista sono la passione per il proprio lavoro, l’autonomia intellettuale, la voglia di lavorare, la convinzione che nulla ti è dovuto e tutto deve essere conquistato, lo spirito di gruppo, la capacità di rendere sempre comprensibili realtà complicate. Significa difendere la propria autonomia anche dal datore di lavoro, saper ascoltare e riferire, stabilire una gerarchia di valori civili imprescindibili, avvicinarsi quanto più possibile all’imparzialità coniugando libertà e responsabilità. Ciò non deve portare a trasformarsi in arroganti o saccenti, che pontificano su tutto. Ma bisogna avere la capacità di restare liberi ed essere disposti a pagarne il prezzo.
  4. Di sicuro non ci sono master, scuole o corsi universitari di giornalismo che insegnino “come tenere la schiena dritta” a chi è “predisposto” alla riverenza e alla sudditanza. 

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Informazione e giornali. Così, in Italia, i giornalisti, dal 2011 in poi, hanno deciso di suicidarsi, omettendo qua, amplificando le balle di là. Massacrando negli ultimi dieci anni il numero dei loro lettori , ormai stanchi e disamorati di essere presi in giro. Peter Gomez sulla vicenda ha predisposto uno speciale di “FQ – MillenniuM” che è in edicola da sabato 11 maggio .

Cari colleghi giornalisti, ci stiamo suicidando. Perché cerchiamo sempre meno le notizie e facciamo strabordare le opinioni. Perché ci indigniamo per le fake news sui social, ma troppo spesso siamo noi professionisti dell’informazione a rifilarle ai lettori, e con dignità di stampa.

Perché incolpiamo Internet delle centinaia di migliaia di copie perse negli ultimi anni e non ci accorgiamo che all’estero c’è chi argina il declino, o addirittura inverte la tendenza, puntando sulla qualità. A livello mondiale, tra il 2013 e il 2017 il giro d’affari dei quotidiani è calato dell’8,6%, che non è poco, ma in Italia siamo precipitati del 20,2%. Più del doppio.

Così FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, esce in edicola sabato 11 maggio con un numero largamente dedicato alla crisi della carta stampata. E alle buone idee per contrastarla. Inchieste e approfondimenti raccontano il dietro le quinte di quello che leggete ogni giorno. Partendo dai massimi sistemi: gli editori impuri che gestiscono giornali in perdita perenne solo per farli pesare sul tavolo di affari ben più sostanziosi, dal mattone alla sanità privata. E stringendo poi il fuoco su quanto possano essere devastanti gli effetti della disinformazione, come nell’incredibile storia di Taranto, dove – come risulta dall’inchiesta giudiziaria “Ambiente svenduto” – per molti anni l’Ilva ha di fatto comprato l’informazione locale, con il risultato di tenere nascosti all’opinione pubblica e alla politica nazionale i malati e i morti da inquinamento.

Così come in Sicilia il caso Montante – raccontato da Claudio Fava – ha svelato l’intreccio perverso tra mafia, antimafia (fasulla) ed informazione.

C’è stato sì chi ha provato ad aumentare la diffusione, ma col trucco, secondo l’accusa che la Procura di Milano contesta a Roberto Napoletano, ormai ex direttore del Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria, a cui FQ MillenniuM dedica un lungo e documentato ritratto. Imputato per false comunicazioni sociali e aggiotaggio, sfiduciato dalla redazione, oggetto di un’azione di responsabilità, in queste settimane Napoletano è tornato in edicola con una nuova creatura, “L’Altravoce”, grondante indignazione per la malagestione economica del Paese.

“Imparzialità” è la parola chiave da cui ripartire, scrive nell’editoriale Peter Gomez. E certo non aiutano le vorticose porte girevoli fra informazione e politica. Troppe le firme di grido che hanno fatto il viaggio di andata e ritorno dalla redazione-Parlamento-redazione, con buona pace della credibilità agli occhi del pubblico. L’elenco è fitto e riempie diverse pagine del magazine. Un caso su tutti: Lilli Gruber. Prima giornalista Rai, poi eurodeputata dell’Ulivo, lasciò con sei mesi d’anticipo il seggio per andare a condurre, su La7, il talk show politico di punta dell’emittente.

A proposito, il 26 maggio noi europei eleggiamo il nuovo Parlamento. Il voto democratico, si sa, poggia sulla libertà di stampa e di opinione. Che, come racconta un lungo reportage, in diversi Paesi dell’Est – non solo nella famigerata Ungheria di Orbán – è ostaggio di politici e oligarchi. Ma non è che nei Paesi di più solida tradizione civica sia tutto rose e fiori. Leggere, per credere, l’intervista a Edwy Plenel, fondatore e direttore della battagliera (e florida) testata francese indipendente Mediapart.

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