Oggi, per sapere cosa succede nel nostro Paese, il 55% degli italiani si informa solo con i social. Consegnandoci, perciò, alla irrilevanza intellettuale e politica sulla base delle opinioni di tizio o di caio, o di Rita Pavone. Mentre TV, giornali, e la maggioranza dei giornalisti, continuano incredibilmente a raccontare come news la parte peggiore di ciò che accade ogni giorno su internet o in TV.

 Proviamo a immaginare di andare all’edicola sotto casa per acquistare una rivista generalista priva di sommario, ma che promette di avere tutte le notizie per noi più rilevanti. Una volta acquistata, cominciamo a sfogliarla lentamente per ritrovare al suo interno una serie di notizie strane a cui viene dedicato un’enormità di spazio a fronte di notizie “normali” che vengono relegate ai margini.

Sfogliando le notizie a cui la rivista dà più rilevanza, in modo apparentemente casuale, troviamo Rita Pavone che se la prende con i Pearl Jam per aver espresso la propria opinione riguardo l’immigrazione in Italia; Alessandra Mussolini che insulta Jim Carrey via Twitter; Calenda che decide di farsi il bagno nell’acqua fredda per rispondere ai “sovranisti” con un post: vi suona anche solo lontanamente familiare? Bene.

La rivista sono i social network, il nostro sfogliare non è altro che il nostro newsfeed che ci restituisce in modo casuale i post degli amici, delle pagine e dei media. Non è una metafora casuale: secondo l’AGCOM il 55% degli italiani si informa attraverso i social network. Le news o le dichiarazioni che cavalcano i trend sono sempre quelle che riteniamo in qualche modo comiche, o ridicole o scioccanti: una modalità con cui alcuni personaggi riescono a entrare nel nostro personale ecosistema informativo.

Perché un tweet di Alessandra Mussolini che risponde a Jim Carrey dovrebbe essere una notizia rilevante, considerato il poco tempo quotidiano per informarsi (io per esempio spesso lo faccio in metro, tra una mail e l’altra, con non sempre la dovuta attenzione)? La risposta è nel modello di business dei media: se è strano o “estremo” fa click, fa visualizzazione che si trasformano in ricavi pubblicitari e si riescono a pagare gli stipendi delle redazioni e a generare profitto.

Ma come è possibile raggiungere i media in questo modo? Qual è il processo? Poniamo il caso che io sia Rita Pavone e che abbia intenzione di ottenere un picco di visibilità online; trovo che la cosa meno vicina alle mie competenze (tra i tanti temi controversi e dibattuti) sia l’immigrazione; vedo diversi cantanti e personaggi della cultura che si schierano contro le politiche del governo sul tema e decido di andare in controtendenza scrivendo un tweet che “infiamma” le piazze, ricevendo indignazione ma anche sostegno.

Sinceramente, l’opinione di Rita Pavone sull’immigrazione è rilevante? Quale arricchimento dà alla nostra giornata e in che modo contribuisce al dibattito sul tema? Tuttavia, la notizia era ovunque e se controlliamo su Google Trends la Pavone in quella giornata ha raggiunto uno score di ricerca di 100/100 (il massimo possibile) contro una media mensile di circa 9-11/100. Altri esempi si sprecano: avete presente Heather Parisi contro Lorella Cuccarini che si esprime sul regime economico dell’Unione europea? Ecco.

Bene, quindi basta semplicemente evitare di cliccare su notizie irrilevanti o mettere like a notizie che non ci interessano e che non riteniamo utili per risolvere il problema? C’è chi l’ha proposto mapurtroppo no, non è così semplice anche perché è un meccanismo che funziona anche al contrario: quante volte abbiamo visto sui social un titolo di un giornale di ultra-destra che ci indigna e lo abbiamo condiviso per esprimere la nostra distanza?

Cosa fare se quel titolo squallido diventa virale (passatemi il termine) e arriva a persone che invece sono d’accordo con quell’affermazione ma che non comprano il giornale? Beh, l’editore ottiene visibilità e “pubblicità” verso una potenziale nicchia di acquirenti.

Questo per dire che non basta semplicemente evitare di condividere e interagire con notizie che giudichiamo razionalmente irrilevanti sui social, perché quello che ci spinge a farlo è un vero e proprio modello di business. Sui grandi numeri, purtroppo, non funzionerà mai un “boicottaggio” di questo tipo.

Come scrive Antonio Pavolini, analista dei media digitali, nel suo ottimo libro “Oltre il rumore: Perché non dobbiamo farci raccontare internet dai giornali e dalla TV”: “Noi insistiamo a doverci posizionare su tutto, specie dove il dibattito è polarizzato e la discussione è ormai completamente sterile, prescindendo completamente dal merito delle questioni” e il fatto “che la ricerca dell’attenzione sia nemica dell’onestà intellettuale è strettamente collegato alla circostanza che in rete ogni opinione, anche la più astrusa, ha un proprio mercato”.

L’opinione di Rita Pavone sui migranti ha mercato? Certo. Era ovunque. E qualcuno era anche d’accordo con lei pur non essere esperta della materia. E ha pure generato click su diverse testate.

Oltretutto la dinamica non è affatto nuova, ma era presente anche nei media “prima di internet”: chi ricorda le opinioni sociopolitiche richieste puntualmente ad Alba Parietti sullo sgabello? Ora il meccanismo è anche al contrario visto che i media mainstream non chiamano più sistematicamente una Rita Pavone per chiedere il suo pensiero sui migranti come si faceva una volta, ma è lei stessa che deve adottare una strategia (spontanea o studiata è irrilevante) per farsi riprendere e ottenere visibilità.

Che fare quindi? Onestamente non saprei, non sono un giornalista e non ho la presunzione di aggiustare il giocattolo rotto ma posso dirvi come mi comporterò io: dato che il tempo di fruizione dei contenuti online (notizie incluse) è estremamente veloce e volatile, quando vedrò notizie su Giorgia Meloni che condivide un post di Capitan Harlock (per esempio) mi imporrò di andare a cercare per cinque minuti notizie vere, che trovo rilevanti, anche su quotidiani esteri se necessario.

Lo stato di salute  del sistema d’informazione in generale è evidentemente a pezzi, ma non è detto che non valga la pena di tentare un ultima volta di possiamo bonificare il nostro. Quantomeno proviamoci

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