Inchiesta giornalistica sul business dei rifiuti : l’export d’oro “della monnezza” che, per essere bruciata , dall’Italia finisce all’EST ed in Romania . Un flusso costante segnato da disastri ambientali quà e là, infiltrazioni criminali e da guadagni illimitati. Paventando ricattatorie “emergenze rifiuti”, così centinaia di milioni di euro vengono sottratti dalle tasche degli italiani . Tutto ciò è possibile perché da 25 anni i governi della Seconda Repubblica hanno solo fatto finta di occuparsene.

La narrazione fasulla della “condizione ineluttabile di dover bruciare i rifiuti” ha trovato il suo nuovo Eldorado : la Romania. I cementifici del Paese dell’Est sono disposti ad ingoiare il “carburante-spazzatura” a prezzi irrisori rispetto alla media europea. E a guadagnarci, tra fanghi e carichi irregolari, ci sono anche molti mediatori e professionisti italiani.

La strategia è vincente ed allettante : bruciare rifiuti quasi a costo zero, evitare discariche e guadagnarci pure. È la strategia waste to energy che da una dozzina d’anni fornisce rifiuti ai cementifici. Questi intanto risparmiano su carbone e petrolio e vengono pure pagati. Sulla carta la soluzione perfetta ad uno dei maggiori problemi di quest’epoca e particolarmente caldo in Italia: lo smaltimento dei rifiuti. Chi difende questa pratica sostiene che i benefici siano molteplici: i rifiuti bruciano ad alta temperatura, rilasciando quindi poco gas serra rispetto ai carburanti classici e bruciare rifiuti significa meno discariche. Un’inchiesta dei due centri di giornalismo d’inchiesta rumeno Rise Project e italiano Irpi, coordinati dalla rete Organized Crime and Corruption Reporting Project, svela come questo patto tra cementieri e istituzioni sia meno “sano” di ciò che si vuole fare credere.

Il commercio dei rifiuti-carburante – quello che veniva chiamato “combustibile derivato da rifiuti” e adesso si chiama “combustibile solido secondario” – è un settore infiltrato dalla criminalità, organizzata. Spesso ai cementifici arrivano rifiuti che non dovrebbero arrivare. E anche quando i carichi in ingresso risultano del tutto regolari, i cementifici sono spesso dei giganteschi mostri costruiti vicino a centri abitati con relative ripercussioni sulla salute dei cittadini.

La Romania è diventata uno dei Paesi di punta di questo commercio. Lì, l’industria dei cementifici vale 750 milioni di euro l’anno e le affamate ciminiere grigie fagocitano enormi quantità di balle di rifiuti provenienti da tutta Europa. Dopo gli scandali legati all’infiltrazione di Cosa Nostra nelle sue discariche, la Romania non accetta più rifiuti stranieri nei propri invasi, ma vede di buon grado l’import di carburante-spazzatura per i cementifici. “Guarda le tegole, le ho cambiate otto mesi fa. Guarda lo sporco che le ricopre… In due anni saranno completamente nere. E’ per via dei copertoni e dei rifiuti che bruciano per soldi. E noi ci ammaliamo. Ecco come funziona l’affare…” racconta Marius Mangu, uno dei tanti contadini che vivono attorno al cementificio della Heidelbergcement, a Chișcădaga, mentre indica il tetto nuovo già ricoperto da uno strato di fuliggine alto tre dita.

Qua i cementieri monitorano le emissioni in autonomia e inviano i risultati al ministero dell’Ambiente. Per il monitoraggio, le aziende si rivolgono tutte allo stesso consulente. Un’impresa di Mihail Fâcă, fino al 2015 direttore dell’agenzia ambientale pubblica che dovrebbe controllare il lavoro dei cementieri. “Questo è il collettore dell’acqua piovana. Guarda che colore ha l’acqua – continua Marius – prima la davo agli animali, ora non mi azzardo più. Ho paura che si ammalino anche loro. Mi sono già morti sette alberi da frutto quest’inverno. I più sensibili, muoiono”. L’odore provocato dalle emissioni è terrificante: d’estate, quando la temperatura tocca i trenta gradi, il rischio è quello di collassare.

In Europa i cementifici chiedono di farsi pagare da 100 a 300 euro a tonnellata di rifiuti bruciati. Ma la Romania, invece, fa eccezione: qui i cementieri accettano di essere pagati 10 euro a tonnellata. E’ chiaro che agli intermediari ed ai faccendieri della monnezza convenga spedire in Romania le balle di rifiuti. Il margine di profitto è notevole per queste società europee che si fanno carico del servizio “chiavi in mano” di esportare all’estero i rifiuti per incenerirli Un terreno fertile , dunque, per quei soggetti che controllano questo variegato mondo del traffico dei rifiuti in Europa.

I carichi irregolari dall’Italia

Costanza è il punto di arrivo dei carichi via mare. Al porto i controlli sono blandi, spesso inesistenti grazie alle mazzette. Ma i carichi viaggiano anche su ruota, passando dalla frontiera con la Slovenia e oltre. Il magistrato Tiberiu Nita per anni ha indagato traffici di rifiuti tossici e ritiene che l’affare del combustibile solido secondario sia di fatto fuori controllo. Nita spiega come i trafficanti di rifiuti abbiano escogitato un metodo perfetto per eludere i controlli durante le varie fasi del trasporto: nascondono rifiuti tossici di ogni tipo nel cuore del carico. Una operazione importante perché l’analisi si concentra su un solo strato del campione del rifiuto, dopodiché tutto viene imballato da una plastica brillante e venduto come carburante. Non è infrequente tra l’altro, hanno appurato le indagini degli ultimi decenni, che tra chi spedisce il rifiuto e chi lo riceve ci sia un accordo precedente riguardo lo strato da cui estrarre il campione da analizzare.

Una pratica sempre più frequente. Se ne sono resi conto nel 2016 gli ispettori ambientali romeni fermando un Tir in arrivo dall’Italia con a bordo un carico di Css. “Quando abbiamo aperto le balle – spiega un ispettore – abbiamo trovato rifiuti ospedalieri”. Che, dice la normativa rumena ed europea oltre che la logica, non possono essere bruciati nei cementifici. Il pm Nita ha aperto un fascicolo, le indagini sono attualmente in corso.

Il carico del camion fermato era solo il primo di una lunga fila: faceva parte del contratto per il trasporto di 12mila tonnellate del cosiddetto combustibile solido secondario stipulato tra un’azienda italiana e un broker romeno, Tiberiu Găneșanu. Nell’Est Europa è un broker di fama. Si difende si difende dicendo che “gli ispettori hanno aperto solo due balle e hanno dichiarato che fosse un carico illegale. Andate in Italia a vedere dove li imballano questi rifiuti: è tutto così pulito che non c’è nemmeno fetore, nell’impianto di imballaggio!”.

Ma chi aveva imballato quei rifiuti? L’azienda toscana Delca Energy. Situata a Vicopisano, è per metà di un immobiliarista livornese, Massimo Saporito e per l’altro 50 per cento di un’altra socia. La Delca Energy però è un’araba fenice, risorta dalle ceneri della società Delca Spa.

Dalla Toscana, con fango

La Delca si presenta come fiore all’occhiello del trattamento rifiuti in due ambiti: la produzione di combustibile derivato e il recupero, tramite spandimento sui terreni agricoli, di fanghi di depurazione civili e industriali. Lo spargimento dei fanghi in agricoltura è previsto dalla legge, purché i fanghi siano depurati e non contengano sostanze tossiche in concentrazioni dannose per uomo e ambiente. Un’attività avviata dalla Delca nei primi anni Duemila. Epicentro Peccioli: un borgo medievale di 5mila anime, tra Pontedera e Volterra, in provincia di Pisa, circondato da colline mozzafiato e uliveti. E’ qui che – ha confermato un processo arrivato in Cassazione – uno dei titolari della Delca, Domenico Del Carlo, ha spanto fanghi irregolarmente già nel 2008.

Dieci anni dopo, a settembre 2018, la Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze ha chiesto un nuovo processo per Del Carlo e suo fratello Felicino: gestione abusiva e traffici di fanghi di depurazione pieni di inquinanti,  i reati contestati. Quarantamila tonnellate di “concime” sversate tra le colline del Pisano, grazie alla compiacenza degli agricoltori del posto.

Le Fiamme Gialle hanno filmato di nascosto lo scarico tal quale dei liquami tra i campi, dimostrando come la procedura fosse fuorilegge. I fanghi, misti a pulper di cartiera, finivano anche in Basilicata e lì usati come combustibile in due fabbriche di mattoni. A trasportare questi ultimi, era un’azienda del Casertano ritenuta dagli inquirenti fiorentini, “vicina al clan dei Casalesi”, e “sin dalle origini riferibile direttamente o indirettamente a tale organizzazione criminale in quanto continuativamente a disposizione del clan almeno dagli anni Novanta per la commissione di traffici illeciti in materia di rifiuti”.

Stando alle dichiarazioni del pentito Gaetano Vassallo – mente manageriale per il traffico di rifiuti dei Casalesi – anche i Del Carlo si sarebbero trovati gomito a gomito con il clan in passato. Nel libro Così vi ho avvelenato, Vassallo racconta come tra il 1988 e il 1992 la Delca portato pulper dalla Toscana alla discarica Novambiente di Giugliano, nel cuore della Terra dei fuochi.

Anche a Peccioli c’è un’enorme discarica. Tra i gironi dell’inferno di creta grigia cinque autocompattatori scaricano rifiuti. I gabbiani girano in tondo e poi si gettano in picchiata. Eppure siamo lontani dal mare. “Chiunque abbia un po’ di cervello se ne è andato da qui”, dice Mario, uno degli abitanti che portano avanti la battaglia contro l’invaso. Tutt’attorno, i campi dove sono stati sversati i fanghi. “Questa zona qui, a destra e a sinistra – indica Mario – è dove hanno sparso i liquami tossici. Prima li spargevano e basta, adesso li sotterrano anche”.  Ormai sembra non esserci più distinzione tra la discarica e i campi circostanti: è tutto una fogna a cielo aperto. Il sindaco di Peccioli, Renzo Macelloni, è un elemento fondamentale del puzzle. Al potere ininterrottamente dal 1988, è passato dall’amministrazione comunale alla società pubblica che gestisce la discarica, la Belvedere, per poi tornare a vestire la fascia tricolore restando però dipendente della Belvedere. Quando, nel 2007, Macelloni è dirigente della Belvedere dà proprio ai fratelli Del Carlo l’incarico di costruire un impianto sperimentale di trattamento fanghi accanto alla discarica. I Del Carlo aprono una società ad hoc, la Belvedere ne acquisisce l’intero capitale, ma inspiegabilmente il progetto naufraga. In contemporanea, la Belvedere – società pubblico partecipata che ha come scopo la gestione della discarica – si da all’immobiliare. Sbarca infatti a Londra, investendo in un progetto di Massimo Saporito, l’immobiliarista livornese che oggi gestisce l’impero Delca.

Infatti, la Delca Spa dei Del Carlo viene liquidata nel 2015, mentre in contemporanea Saporito inaugura la Delca Energy: l’araba fenice della spazzatura. I Del Carlo, pur non comparendo nella nuova Delca, non sono mai usciti davvero. Quando i giornalisti di Rise e Irpi hanno chiesto numi rispetto al carico fermato in Romania, è stato proprio Domenico Del Carlo a fornire delle spiegazioni. Alle domande inviate via email, la segreteria ha dichiarato che Delca non aveva mai inviato carichi nel paese dell’Est. Davanti alle insistenze dei giornalisti, è stato Del Carlo a rispondere ai reporter, dichiarando di avere sì avuto in passato un canale con la romania, ma di avere fermato l’export perché le condizioni commerciali non erano buone.

Da Brescia con furore

In realtà i bassi costi di smaltimento dei cementifici romeni continuano a fare gola al sistema rifiuti, che in Italia è sempre più impegnato a trovare nuove destinazioni dopo lo stop della Cina all’importazione degli scarti della plastica.

C’è un biglietto da visita che non può mancare nel portafoglio degli imprenditori del settore: quello del broker bresciano Sergio Gozza, classe ‘53, che dai primi anni Novanta contratta l’export di rifiuti in Europa e Nord Africa. Il suo profilo risponde a un’esigenza di mercato: mettere in contatto chi deve liberarsi del rifiuto con chi lo accoglie per smaltirlo in discarica o trasformarlo in combustibile. Un ruolo cerniera indispensabile, ma che spesso cammina sul confine tra lecito e illecito.  Lo scorso novembre, il broker bresciano emerge da un lungo procedimento giudiziario a suo carico, che al tribunale di Ancona finisce in prescrizione. Accusato di traffico illecito di rifiuti, con altri sedici indagati, nel 2010 Gozza finisce ai domiciliari in seguito ad una complessa indagine dei carabinieri del Noe coordinati dal pm Paolo Sirleo della Procura di Napoli e dal pm Rosario Lioniello della Procura di Ancona. Le indagini ricostruiscono un sistema secondo cui i rifiuti – perlopiù idrocarburi delle grandi petrolchimiche del Centro-Sud Italia, dall’area ex Rfi di Casoria alla raffineria di Gela, passando per la Caffaro di Colleferro – venivano classificati in modo errato e quindi smaltiti illecitamente, ai fini di un ingiusto profitto. Dopo mesi di appostamenti vicino agli impianti, gli inquirenti hanno dimostrato analisi alla mano come gli scarti non venissero lavorati ma semplicemente miscelati con altri rifiuti. Un traffico che ha coinvolto siti di stoccaggio dal Centro-Sud Italia alla Germania, come dimostra la mole di materiale analizzato dai giornalisti e racchiuso in 20 faldoni stipati tra la polvere della Procura di Ancona.  Ed è proprio uno dei trasporti verso la Germania a mettere nei guai il broker bresciano. Una prima spedizione, annotano gli inquirenti, riguarda fondami di serbatoi che “non possono essere smaltiti in discarica ma devono essere avviati a incenerimento, con conseguente smaltimento in discarica delle sole scorie”. Una operazione che necessita tempo e denaro. La soluzione è dunque quella di smaltire tutto in discarica “accompagnando rifiuti con analisi di altri campioni”, scrivono gli investigatori commentando le intercettazioni telefoniche agli atti dell’inchiesta. Più avanti il gruppo cercherà di mandare un altro carico verso la discarica tedesca Wev, in Sassonia, che facendo i controlli rileverà la presenza di arsenico (derivante dai rifiuti raccolti alla Caffaro di Colleferro) e ordinerà nuove analisi a campione che venivano comunque svolte da una società legata al gruppo. Per i magistrati e i periti incaricati la lavorazione e il trattamento dei rifiuti è stata “inesistente” e l’azienda bresciana avrebbe compiuto azioni dirette ad “aggirare i controlli da parte dei tedeschi come la preparazione di campioni, di carichi di prova e di analisi di laboratorio ad hoc”. Per i pm tutti gli imputati erano “pienamente consapevoli del ruolo svolto nella complessa filiera dello smaltimento illecito praticato”. Otto anni però non sono bastati per giungere a un verdetto del tribunale e a inizio novembre è stata dichiarata la prescrizione.

Nel giugno 2013 Gozza si trova ad affrontare un altro problema. Siamo al porto di Costanza, in Romania, e la nave Volgo Balt (già nota per traffico di rifiuti) è appena stata sequestrata. Rimarrà ferma due mesi: partita nel febbraio 2013 da Ortona, Abruzzo, con 2700 tonnellate di Css dirette all’incenerimento in Romania, viene bloccata perché le autorità sostengono che i rifiuti non siano stati adeguatamente trattati e classificati. L’intermediazione del carico era affidata alle società di Gozza. Alla fine gli scarti prenderanno la via della Bulgaria. L’Abruzzo per Gozza è un luogo chiave: con la sua Ecovalsabbia si prepara a dare il via, tra le proteste degli ambientalisti, ad un sito di stoccaggio di Css che servirà come “deposito temporaneo, in attesa di poter essere imbarcato nella vicina area portuale”. La società Ecovalsabbia, contattata anche telefonicamente, non ha voluto rilasciare dichiarazioni né in merito all’indagine di Ancona, né in merito ai suoi nuovi progetti.

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